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I Filelleni Italiani , invitati dal Liceo Scientifico di Reggio Calabria “A. Volta”, visitano la magnifica Città, il museo e incontrano i rappresentanti delle Comunità ellenofone calabresi.

Scritto da il 12 Maggio 2022

Fonte: Societá Filellenica Italiana Maggio 12, 2022

 

Si pubblicano di seguito immagini sparse di questo intenso fine settimana (6/9 maggio 2022): il convegno al Liceo “A. Volta” di Reggio Calabria sul tema “La lingua greca: l’invenzione che ha cambiato il mondo“; la visita al Museo archeologico, guidata dai giovani della Filellenica, ed alla magnifica città di Reggio Calabria; la visita a Pentadattilo, Gallicianò e Bova; e qui l’incontro con alcuni rappresentanti delle Comunità ellenofone di Calabria. Si pubblicano, inoltre, alcuni interventi tenuti in occasione del Convegno.
Siamo grati alla Dirigente scolastica del Liceo “A. Volta” di Reggio Calabria,  Prof.ssa Maria Rosaria (Marisa) Monterosso, per il percorso di insegnamento della lingua greca che ha iniziato con gli studenti del Liceo Volta, sotto la guida dell’archeologa Vasiliki V0urda; ed anche  per l’opportunità che ci ha dato di testimoniare la nostra profonda passione per la lingua e per lo straordinario popolo greco.
Il saluto del Dott. Domenico Chirico, Dirigente Amministrativo del Liceo A. Volta.
La Grecia ti prende al primo sguardo. Capita sempre e solo in mare, quando la notte saluta il giorno che sta per nascere, e il traghetto, silenzioso, scivola verso Oriente squarciando l’Eptaneso. A quell’ora la luce è impercettibile e i neri contrafforti dell’Epiro greco e di quello albanese guardano il marinaio con occhi minacciosi confondendosi con le oscure profondità del mare su cui tutto scivola silenzioso. E’ quello il momento in cui la mente si libera e la fantasia vola veloce, spiega le sue ali sull’immensità dell’acqua fino a planare sulla spiaggia su cui esule l’astuto Odisseo bagnò il suo sandalo. Accadde, così, anche per me, trentacinque anni fa, ultimo anno della mia vita da studente di Liceo Scientifico. Da allora in Grecia ci tornai altre ed altre volte ancora. Odysseas Elytis diceva che “Se scomponi la Grecia, alla fine vedrai che ti rimangono un olivo, una vigna e una barca”. Per me la Grecia è molto di più. E’ l’essenziale, l’impercettibile, quello spazio temporale in cui il tutto viene ricondotto all’Unità, alla manifestazione del divino. E’ l’intraducibile, che ritrovo in parole come φιλότημο, μεράκι, παληκάρι. Per me la Grecia è quella raccontata da Papadiamandis, ViKelas, Theotokis, Viizinos e su tutti Kazantzakis, ultima propaggine del verismo greco. I passi di questi autori sembrano ripercorrere per magia i sentieri del nostro meridione contadino, perso tra le pieghe di racconti fatte di frugalità, tradizione, faide e sangue, storie che guardano ad Oriente. E le storie semplici, in effetti, si somigliano ovunque, soprattutto da noi, discendenti degli ultimi esuli di Eubea, come chiamiamo quella striscia di terra che guarda a Bisanzio. La magia delle Meteore, di Delfi, di Micene, di Epidauro o di Atene mi sorprendono e mi affascinano sempre, ma il senso della Grecia è in quell’essenzialità che sfugge allo sguardo. E’ la strada, il percorso che ti conduce fino all’ultimo villaggio, davanti ad una chiesa dove sedute stanno, onuste di lutti e di storie da raccontare, donne vestite di nero, e ancora più avanti, in un angolo di una piazza, sotto l’ombra del platano, dove uomini si ritrovano a giocare a tavlì. Una zingara, col suo uomo, spennella di burro profumate pannocchie, l’aria è carica di tabacco e raki. Le cicale cantano e fanno festa, laggiù, lontano dal mare. Kazantzakis come Kafavis e come Omero, prima di tutti, ce lo hanno insegnato che “L’uomo è come l’albero: ha bisogno di terra”.
Ιθάκη σ’ έδωσε το ωραίο ταξίδι.
Χωρίς αυτήν δεν θάβγαινες στον δρόμο.
 
 
Itaca ti ha donato il Viaggio meraviglioso.
 
Senza di lei tu non saresti mai partito per la tua via
                                                                                 Domenico Chirico
Memoria e identità: alle origini dei luoghi dell’anima e delle emozioni. Intervento della Prof.ssa Anna Maria Borrello
Ta làchana cinùria fitettsèta, ta palèa mi ta sìri ( I cavoli nuovi piantali, i vecchi non strapparli )
Il latino e il greco antico sono l’eredità viva e caratterizzante della base comune della cultura europea e mediterranea come recentemente affermato nella Dichiarazione congiunta dei Ministri dell’Istruzione europei volta a rafforzare la cooperazione per lo studio del latino e del greco antico, firmata all’inizio del 2022 dai Ministri dell’Istruzione francese, italiano, cipriota e greco che riconosce come l’apprendimento delle lingue e delle culture dell’antichità, la pratica della traduzione e la comprensione della cultura umanistica permettano di sviluppare i saperi fondamentali e gli strumenti che conducono alla riflessione e alla più ampia conoscenza del mondo e della società moderni, allo spirito critico e al ragionamento. Sono pertanto ingiustificate e addirittura paradossali le paure di chi teme che avviare i giovani allo studio delle discipline umanistiche sottragga risorse alla scienza e alla tecnica: la consapevolezza delle potenzialità e delle funzioni della propria intelligenza li renderà più capaci di applicarsi anche alle scienze esatte e alle tecnologie. Gli studi umanistici non sono antiscientifici, sono scienza essi stessi. Muta l’oggetto di studio e inevitabilmente almeno in parte il metodo, ma le cosiddette scienze umane sono un ambito privilegiato per educare alla logica, al senso critico, alla valutazione storica.
Le lingue classiche posso
no e devono essere lo strumento per mantenere vivo, tra le generazioni, tra gli anziani custodi della memoria e i giovani tessitori della storia, un dialogo che le grandi sfide e i processi di pacificazione non possono fare a meno di mantenere vivo. Se, nelle difficoltà, sapremo praticare questo dialogo intergenerazionale potremo essere ben radicati nel presente e, da questa posizione, frequentare il passato e il futuro: frequentare il passato, per imparare dalla storia e per guarire le ferite che a volte ci condizionano; frequentare il futuro, per alimentare l’entusiasmo, far germogliare i sogni, suscitare profezie, far fiorire le speranze. Senza le radici, come potrebbero gli alberi crescere e produrre frutti? Come potrebbero fiorire senza la cura? Fioritura è un termine che comprende catarsi ed equilibrio, nascita e morte, inizio e compimento. L’attenzione per ciò che accade dentro e fuori di noi, per il dettaglio, per le piccole cose, l’attenzione a ciò che scuote l’animo è per i Greci l’Epimeleia heautou. La cura è uno sguardo sul mondo, sulle cose, sulle azioni che si compiono, è una pratica dell’agire con attenzione, esercitando in ogni momento la scelta. La formazione alla cura è, in questo senso, innanzitutto, ascolto di ciò che fa rumore dentro di noi.
Il viaggio nel mondo della cura comincia dal mito di Crono, il Dio greco che si occupa “ teneramente” degli umani. Quando però, terminato il suo lavoro, Crono si ritira, gli umani si ritrovano abbandonati alla cura di sé stessi. Fin da quando veniamo al mondo dobbiamo prenderci carico del compito dell’ esistenza ossia della cura, di noi e degli altri. I Greci utilizzavano tre parole diverse per descrivere la “ cura”: merimna, cura come preoccupazione di conservare la vita; therapeìa, cura delle ferite, sia nel corpo sia nell’anima; epimèleia per indicare quuella cura che si prende la responsabilità dell’esistenza per farla fiorire e che è intimamente legata al conosci te stesso socratico: conoscersi come unici e frammentati, non unitari, sempre divenienti, aiuta ad essere meno duri con sé stessi e ad accettare le conseguenze delle azioni con responsabilità e non con senso di colpa. Prenderci cura di noi stessi significa fare attenzione e dare spazio a emozioni, desideri, talenti, progetti, non si tratta di una cura dettata dalla vanità e dalla paura del giudizio ma dal desiderio di agire bene. Per questa ragione, prendermi cura di me significa prendermi cura di una parte del mondo, e così facendo prendermi cura anche degli altri.
La cura ha bisogno di tempo “ il tempo è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno” dice Eraclito che, per parlare del tempo, accosta la leggerezza del gioco, la casualità di un lancio di dadi all’inesorabilità del tempo e all’enigma del suo svolgimento.
I Greci usavano diversi termini per definire il tempo: Chronos per indicare la natura quantitativa, quindi lo scorrere dei minuti; Aiòn in riferimento alla vita come durata; Kairòs per indicarne la natura qualitativa e quindi soggettiva, indeterminata e indefinita.
Chronos era una divinità terribile e potentissima, figlio di Urano e Gea; nella mitologia greca veniva rappresentato come un gigante che divora i propri figli, che egli stesso ha generato, finché non viene spodestato da Zeus.
Kairòs, ultimo figlio di Zeus, era rappresentato come un giovanetto con le ali ai piedi, in continuo movimento, con un ciuffo di capelli in fronte e la nuca rasata ad indicare la difficoltà di afferrarlo. Teneva in mano un rasoio su cui è poggiata una bilancia. Indicava il momento giusto, opportuno, adatto, la buona occasione, un momento nel quale accade qualcosa di speciale. Il momento da cogliere nella sua veloce istantaneità: in questo caso il tempo sembra vivere solo come presente, ma diventa fondamentale per il futuro in quanto l’attenzione costante permette di “leggere” gli eventi. E’ un invito a vivere nel presente, nella quotidianità agendo consapevolmente. Kairòs è un tempo rivelatore, una porta di accesso verso l’interiorità.
Chronos e Kairos sono dunque due modi diversi di interpretare il tempo: Chronos , inteso come scorrere dei minuti e delle ore, può diventare quello che ci travolge nella sua inesorabile ripetitività, il tempo che non lascia spazio alla meraviglia e non basta mai ( è il tempo orizzontale o verticale, la diacronia) . Kairòs è invece il momento giusto per affrontare qualsiasi cosa, è il momento speciale per chi quella cosa sta sperimentando in quel preciso istante. Kairòs è dare un senso a ciò che accade, un essere presenti mentalmente nelle diverse azioni che svolgiamo nella vita, un aprirsi alla qualità del tempo e guardare le cose da un ‘ altra ottica, è saper comprendere i diversi punti di vista e comprenderli sinotticamente ovvero sincronicamente.
Il pensiero occidentale che persiste in noi e ci pervade nasce in Grecia, o meglio nelle colonie greche. I Greci hanno saputo fornire un nuovo metodo di trattazione delle conoscenze, facendole progredire in un tempo molto più breve rispetto all’evoluzione delle conoscenze dei popoli antichi. Al centro della ricerca dell’uomo greco non c’è un generico sapere, ma l’alètheia, la verità intesa come ciò che non è nascosto ( alfa privativo più lethos disvelamento), che non si può negare e non richiede una fede , ma si sostiene da sé in virtù delle sue ragioni; essa è indagine diretta a rintracciare la verità al di là delle consuetudini, delle tradizioni e delle apparenze; è preclusa ai più che invece di percorrere la via della verità percorrono quella dell’apparenza, rimanendo dipendenti dallo sguardo altrui e pertanto pervasi dal sentimento della vergogna. ( aidos) . L’aletheia tende alla spiegazione del tutto, quel tutto che dal Kaos che genera anche inquietudine, è ricondotto all’ordine ovvero al kosmos non attraverso una spiegazione mitica legata alla religione, ma attraverso la verità che si mostra, l’aletheia appunto , accessibile soltanto a chi la voglia cercare. Se aletheia è ciò che non è nascosto, episteme è ciò che sta sopra, che sostiene la aletheia; grazie al loro connubio è possibile guardare il mondo non con il thaumazein ( atteggiamento di stupore o meraviglia) ma con filosofia, cioè avendo cura per ciò che sta nella luce.
Custodire l’eredità del pensiero occidentale è fondamentale perché l’assenza della nostalgia, della memoria è una perdita dell’identità. Se non avessimo la nostra memoria non sapremmo chi siamo. L’identità personale è fondata sulla memoria, sulla propria autobiografia. Per l’uomo memoria è il tempo, sono i luoghi, i ricordi, le esperienze, le relazioni, le radici ( riza) in cui ha conosciuto sé e riconosciuto gli altri uomini. Mnemosùne , la memoria, madre delle Muse che proteggono l’arte e la storia dà a poeti e saggi la capacità di tramandare il passato e conferisce una forma di immortalità agli uomini le cui gesta vengono ricordate. Poeti, come Pindaro, la invocano perché strumento ed effetto di verità ( aletheia) , di continuità storica; la memoria, come la poesia è eternatrice , ha potere diacronico e fissa i valori da tramandare nel tempo. E’ Esiodo, nella Teogonia, a raccontarci la storia di Mnemosyne di cui Zeus non potè fare a meno di innamorarsi così che sotto le sembianze di un pastore, riuscì a trascorrere con lei nove notti in cui vennero concepite le nove Muse. Esiodo attraverso il mito, vuol dire che non esiste armonia, arte , nessuna nobile manifestazione del pensiero e dell’ingegno umano senza la memoria. Per i Greci l’arte è l’espressione più alta del nostro essere più profondo e solo attraverso l’arte è possibile distinguere la limpida immagine di noi grazie al bagaglio di ricordi che si amplia, con il tempo, di esperienze che ci portiamo sempre sulle spalle. Noi siamo eredi di un patrimonio culturale ( nani sulle spalle dei giganti) cioè dell’insieme delle tradizioni, delle conoscenze, dei simboli presenti e persistenti in ogni tempo, nel sogno e nella veglia dell’uomo: solo grazie alle tradizioni si possono vincere i limiti dello spazio e del tempo e si può giudicare la storia, la quale altro non è che Tradizione ( tradere affidare attraverso). E’ quanto mai necessario, indispensabile definire un’etica della cultura del patrimonio, strettamente legata alla necessità di preservare la memoria di ogni individuo, di ogni comunità e di ogni paese. Questa etica della trasmissione della memoria rappresenta l’identità culturale e quindi il segno e il senso di appartenenza. Il patrimonio culturale non può essere recluso tra i confini di una nazione, non può avere barriere e muri, ma ponti e deve essere testimonianza diretta di quella molteplicità creativa della mente estesa di cui oggi abbiamo grande necessità per risignificare questo patrimonio nel rispetto delle contemporanee necessità.
Per i Greci l’aidos, il pudore, è determinante fra gli stati passionali; è incapacità di affrontare senza animo impetuoso le situazioni di scontro o di confronto. La paura della vergogna , che minaccia in modo diretto il senso dell’onore, è l’unica in grado di svolgere un ruolo attivo nella costruzione delle personalità e quindi dei popoli, trasformandosi in un baluardo contro gli effetti disgregativi delle altre paure. Coraggio ( andreia) e vergogna sono connessi specularmente: coloro che sono considerati incapaci di coraggio sono considerati anche privi di vergogna. E’ abbastanza chiaro che, essendo l’andreia una virtù etimologicamente maschile, il caso della mitica Alcesti pronta ad affrontare la morte e a scegliere di morire al posto del marito Admeto, sia un caso di anomala eccellenza al femminile. La vergogna appare un sentimento accessibile solo a chi è in grado di partecipare alla competizione per raggiungere l’onore e la gloria. E’ un sentimento selettivo, legato all’impegno per il riconoscimento del valore ( aretè). La vergogna colpisce il cittadino anche nel caso in cui egli semplicemente non rispetti le leggi, quasi che violarle lo equiparasse al disertore in battaglia ( a colui che abbandonava lo scudo, come cantano Tirteo e Archiloco) ; le leggi infatti, dice Pericle, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta. Lo status della vergogna è purtroppo una emozione morale che abbiamo perso e che ha subito un declino a tutto vantaggio del valore del senso di colpa ( ate) come rilevano molti studi tra i quali basterà citare quelli di Dodds e più recentemente di Konstan. In una civiltà di vergogna è normale e coerente che Pericle possa pronunciare quel “Discorso agli Ateniesi” tramandato nelle Storie da Tucidide in cui, fra l’altro si dice “ Qui ad Atene noi facciamo così. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia… La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo… Noi siamo liberi,liberi

di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. ..Ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso…Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia…Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma che la libertà sia solo il frutto del valore…Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni Ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in sé stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.” Questo brano mette in rilievo l’alterità dei Greci rispetto alla nostra cultura, quanto sia diversa la loro dalla nostra libertà , la loro dalla nostra politica, la loro dalla nostra uguaglianza. Identità e alterità entrano in gioco in perpetua tensione, ma è una tensione feconda. La storia e la civiltà greca possono diventare un “ altrove” che è insieme nello spazio e nel tempo, un’altra terra dove viaggiare, talvolta riconoscendovi qualcosa di familiare e più spesso meravigliandoci per presenze inaspettate e sorprendenti; perciò possono entrare in un più ampio e arioso paesaggio, che includa, con le culture altre con cui essi furono in contatto, quelle culture tutte, che costituiscono il nostro mondo di oggi. La storia greca può diventare storia per eccellenza dell’altro, obbligandoci alla gioia dello scoprire e del conoscere e del riconoscere, obbligandoci al dovere di una rigorosa disciplina intellettuale, con gli strumenti costruiti dalla scienza dell’antichità. Simone Weil ha detto che la Grecia è stata costruttrice di ponti (la filosofia, l’arte, la scienza); noi abbiamo ereditato la sua vocazione; solo che ora, questi ponti, crediamo di poterli abitare. Non sappiamo più che essi si trovano qui unicamente per essere attraversati e per raggiungere “l’altra parte”. Anziché una versione del noi che siamo e che vorremmo essere, i Greci dovranno diventare sempre di più un “ altro” da noi, perché per costruire una qualsiasi altra identità culturale abbiamo bisogno di fare i conti con i Greci, con quella perpetua tensione fra esemplarità e storicità, fra identità e alterità. Per crescere, noi, come “ altri”, abbiamo bisogno di sentire come “ altri” i Greci. E’ pensando ai Greci, e pensando da Greci, che potremo allora pronunciare con pieno diritto le parole di Rimbaud.” Je’est un autre”.